“Sbagliando si impara”. Così recita il detto.
Stefano ed io abbiamo scoperto una valida alternativa al significato di questa espressione.
Tutto inizia un sabato mattina. Si parte per un giro in moto alla volta dell’Alpe Devero, con lo scopo di passeggiare e rubare qualche scatto naturalistico.
Lungo la strada Stefano si accorge di aver dimenticato a casa i documenti della moto. Costretti a rientrare e perdendo minuti preziosi, optiamo per un altro luogo, più vicino: il Sacro Monte di Varese. Un luogo conosciuto che tuttavia si trasforma in una piacevole sorpresa!
Perché, come dice sempre il nonno, “non si finisce mai di imparare”!
E poi è Patrimonio UNESCO e questo insieme al fatto che l’Italia è la nazione che detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista dei Patrimoni dell’Umanità, ci deve solo rendere orgogliosi del nostro bel Paese che non smette mai di stupirci, incantarci ed emozionarci!
Prima di raggiungere il Sacro Monte ci fermiamo a Velate, frazione di Varese, attirati dal cartello “Torre di Velate, XI sec. FAI”.

La Torre rappresenta un punto fermo nel paesaggio collinare dei dintorni di Varese ed è di proprietà del Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI). Costruita nell’XI secolo sulle alture dominanti la strada per il Lago Maggiore, la torre era inserita nell’antica struttura difensiva del Limes prealpino e destinata a presidio militare della sottostante via per Angera e il Lago Maggiore. La struttura, in pietra viva, con pianta quadrangolare, raggiunge i 33,5 metri d’altezza, con cinque piani fuori terra serviti da un articolato corpo scale posto sul lato orientale. Il poderoso fortilizio, del quale rimangono solo due lati e uno soltanto è integralmente conservato, fu gravemente danneggiato alla fine del XII secolo dai milanesi vittoriosi sulle milizie imperiali e sugli alleati del Barbarossa, tra i quali figuravano i nobili di Velate.
A condire la nostra breve fermata un gruppo di signori riuniti davanti al cimitero, nei pressi della Torre, intenti in un’accesa conversazione riguardante il tempo previsto nei prossimi giorni.
La nostra seconda tappa è l’Osservatorio Astronomico. Ci fermiamo vicino al Bar Ristorante Irma e reduci dalle nostre camminate in Trentino individuiamo le frecce bianche e rosse che indicano un vicinissimo “Punto Panoramico” dal quale, in effetti, si gode di uno splendido panorama. Continuiamo a camminare proseguendo il sentiero quando incontriamo due signori ai quali chiediamo informazioni su come raggiungere l’Osservatorio.
La risposta cita un “sentiero che va su, un po’ posticcio, non del tutto segnato, ma percorribile”. Quale risposta migliore per preferire questo sentiero alla strada asfaltata accessibile a tutti. In effetti, il sentiero c’è. Occorre solo percorrerlo indossando dei jeans e con le braccia alzate perché, soprattutto nell’ultimo tratto, è pieno di rovi.
Arriviamo in cima all’Osservatorio e anche qui la vista non è male, nonostante il caldo e l’umidità rendono il panorama un po’ “appannato”. Non si tratta però solo di un Osservatorio. A 1230 m di altezza, sulla cima del Campo dei Fiori (Punta Paradiso) sorge da oltre mezzo secolo la Cittadella di Scienze della Natura, fondata da Salvatore Furia al fine di “creare un ponte di comprensione tra la Scienza e la gente”. La Cittadella comprende l’Osservatorio Astronomico “Giovanni Virginio Schiaparelli”, il Centro Geofisico Prealpino ed il Giardino Montano “Ruggero Tomaselli”, per la tutela e conservazione della biodiversità.
Con le sue tre cupole, è anche un importante polo scientifico a livello internazionale. Le ricerche si concentrano sulla spettroscopia stellare e sul monitoraggio di asteroidi pericolosi per il nostro pianeta, attività che ci pone tra i più importanti Osservatori astronomici amatoriali al mondo. Il telescopio principale dell’Osservatorio è un riflettore da 84 cm di diametro, uno dei telescopi amatoriali più grandi a livello italiano ed europeo!
Rientriamo questa volta dalla strada asfaltata e scopriamo il percorso “ufficiale” per i turisti per raggiungere comodamente l’Osservatorio.
Dopo una tappa caffè e torta rustica, accompagnati da qualche coloratissimo animaletto, entriamo nel piccolo borgo di Santa Maria del Monte.

Il Sacro Monte del Rosario di Varese è indubbiamente il più affascinante itinerario mariano al mondo. Le 14 Cappelle che si snodano lungo un acciotolato di circa 2 km e che portano in cima al Sacro Monte, nel borgo di Santa Maria del Monte, sono un itinerario in cui fede, natura ed arte si intrecciano armoniosamente. Costruita circa 400 anni fa, sono milioni i pellegrini che sono passati lungo questa via sacra.
“Pare che gli italiani non possano guardare un posto elevato senza desiderare di metterci qualcosa in cima, e poche volte l’hanno fatto più felicemente che al Sacro Monte di Varese”, commentava argutamente nel 1881 lo scrittore inglese Samuel Butler.

Il borgo di Santa Maria del Monte nacque come roccaforte romana per poi evolversi in epoca borromaica in centro spirituale, artistico e culturale, grazie alla suggestiva salita segnata dalle Cappelle dei Misteri dei Rosario. Erette in piena epoca di Controriforma nel corso del XVII sec. per merito sopratutto della collaborazione tra padre Gian Battista Aguggiari e le suore romite ambrosiane che vivono tuttora nel borgo di Santa Maria, le Cappelle furono progettate dall’architetto varesino Giuseppe Bernascone secondo una particolare teoria architettonica e spaziale che sfrutta al meglio il dislivello e il crinale del monte. Sulla sommità si trova il Santuario di Santa Maria del Monte al cui interno, sull’altare, è rappresentato il quindicesimo mistero: realizzato intorno all’VIII-IX secolo d.C. subì un notevole ampliamento quando il numero dei fedeli si moltiplicò. Le ultime opere sul santuario risalgono ai primi anni del secolo scorso grazie all’intervento di Lodovico Pogliaghi.

Ma andiamo al sodo. La scoperta più affascinante di tutta la giornata arriva alla fine, come la celebre e insostituibile “ciliegina sulla torta”. Casa Museo Lodovico Pogliaghi.

Chi è costui? Per rendere subito noto il personaggio, la commessa più nota di Lodovico Pogliaghi (Milano 1857 – Varese 1950) è di certo quella per il portale centrale del Duomo di Milano, lavoro che assorbe le energie dell’artista per una quindicina d’anni. I battenti vengono inaugurati nel 1906, mentre la cimasa nel 1908. La casa museo ospita i gessi originali utilizzati per la fusione del portale, che lo scultore ha riassemblato e in parte rilavorato!
La domanda successiva è: cosa ci fa Lodovico Pogliaghi a Varese?
Lavorando al restauro delle cappelle del Sacro Monte di Varese, Pogliaghi rimase stregato – come molti prima di lui – dalla tranquillità e dalla bellezza di questi luoghi. A partire dal 1885 decise di acquistare vari terreni attigui sui quali iniziò a costruire la villa alla quale lavorò quotidianamente fino alla morte, sopraggiunta nel 1950, a ben 93 anni. Concepì l’abitazione come un laboratorio-museo dedicato al ritiro, allo studio e all’esposizione del frutto della sua passione collezionistica. L’edificio, progettato dallo stesso Pogliaghi, riflette il gusto ecclettico dell’epoca e l’interesse del proprietario verso tutte le forme d’arte, con sale ispirate ai diversi stili architettonici e un giardino all’italiana costellato di antichità e oggetti curiosi.

La villa, donata da Pogliaghi alla Santa Sede nel 1937 e oggi di proprietà della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, è stata aperta come museo dal 1974 e sino agli anni ‘90 del Novecento e ha riaperto al pubblico nel maggio del 2014.
L’allestimento, progettato per la nuova apertura, propone di avvicinarsi il più possibile all’allestimento degli anni ’50 del Novecento, conservando l’originale e personalissima disposizione degli arredi e delle opere dello stesso Pogliaghi.
Mentre aspetto l’inizio della visita guidata, inizio a curiosare nel giardino. Immediatamente questo luogo mi rapisce, mi affascina, mi emoziona. La prima cosa che penso è “sembra di essere in Villa Necchi Campiglio a Milano”.

C’è quel gusto eclettico, quell’alone magico che subito mi elettrizza. Una teoria di statue, telamoni, capitelli bizantini incastonati in un bel giardino all’italiana dove si può ammirare anche uno splendido fiore: l’acanto. Fu la passione che l’artista aveva per l’antico a volere l’acanto nel suo giardino.

Non vedo l’ora di entrare. Quell’ingresso, impreziosito di marmi e pietre pregiati, di sculture e pezzi antichi. Cotto, porfido egiziano, mosaico. Tutto questo mi fa davvero impazzire!
La visita inizia, entriamo in casa e, che dire: straordinario, unico, stupendo.
Quella prima intuizione si avvera: iniziano ad affiorare sensazioni ed emozioni simili a quelle provate in Villa Necchi Campiglio. Questa casa museo è semplicemente un gioiello. Piccolo, raffinato, prezioso.
La sala d’ingresso è detta Sala della Madonna o Sala delle Collezioni (fotografia dal sito www.casamuseopogliaghi.it) per via dell’intenzione di Pogliaghi di esporvi i pezzi più preziosi e rappresentativi della sua collezione. L’allestimento, la scelta dei pezzi, la decorazione pittorica e le stesse vetrine sono state concepite e realizzate da Pogliaghi stesso. La selezione degli oggetti esposti può essere considerata una sorta di campionario non solo delle passioni collezionistiche dell’eclettico artista, ma anche della storia dell’arte e dell’archeologia in generale. Sono infatti presentate opere dei più diversi materiali (terracotta, oro, argento, avorio, porcellana, carta, tessuto prezioso…) e provenienti dai più diversificati contesti storici, artistici e geografici. Tra i pezzi più significativi si segnalano un Cristo in croce dello scultore fiammingo Giambologna, una Madonna col bambino tedesca in legno policromo datata all’inizio del Cinquecento, vetri delle manifatture medicee e veneziane, statue e oggetti votivi orientali.

Non c’è ombra di dubbio: sono innamorata di questo luogo.
Adoro il soffitto e le pareti lignee mischiate alle collezioni antiche, impastate con le decorazioni che testimoniano il modus operandi dell’artista.
Nella seconda sala, una piccola stanza che congiunge l’ingresso con la Biblioteca di Lodovico Pogliaghi, di nuovo quell’affascinante eclettismo: un forziere settecentesco, una Madonna lignea umbra di XIV secolo e un telamone padano di XII secolo.
Entriamo nella Biblioteca (fotografia dal sito www.casamuseopogliaghi.it). Quanto avrei voluto avere in casa una biblioteca così! Originariamente contenente preziosi incunaboli, pergamene, autografi e cinquecentine, oggi la biblioteca di Lodovico Pogliaghi è stata trasferita presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano che ne garantisce la corretta conservazione e accessibilità. La rimozione delle scaffalature, scomparse già dalla prima apertura al pubblico, ha permesso di dare maggiore visibilità alla decorazione progettata e realizzata dallo stesso Pogliaghi. Benché i lavori siano rimasti incompiuti, è chiaro l’intento di rendere l’atmosfera di uno studiolo rinascimentale toscano. La stanza è oggi utilizzata per esporre una parte della produzione di medaglie e placchette commemorative di Pogliaghi. Noto e apprezzato incisore, Pogliaghi ha difatti lavorato a moltissimi soggetti richiesti dalle più diversificate committenze.
La biblioteca ospita inoltre un prezioso tavolo intarsiato d’avorio, uno splendido bozzetto in terracotta della Santa Bibiana (1624-1626) di Gian Lorenzo Bernini e alcuni degli oli su tavola della sua collezione.

Si prosegue nella Sala Rossa o Salone (fotografie dal sito www.casamuseopogliaghi.it), che prende il nome dagli splendidi damaschi settecenteschi cremisi che Pogliaghi utilizza come tappezzeria e alla cui sommità colloca un fregio decorativo da lui realizzato con putti alati, dall’effetto fortemente tridimensionale, che reggono ghirlande e tondi figurati. Sempre settecentesche sono le preziose specchiere e i lampadari in vetro di Murano, esemplificativi della grande passione di Pogliaghi per i vetri antichi. Domina la sala un grande vaso cinese tardo Ming incorniciato e sorretto dalla montatura bronzea del Pogliaghi. Dal Salone si accede al piacevolissimo balcone dal quale è possibile godere di un meraviglioso colpo d’occhio sulla vallata e i laghi. Ad incorniciare il balcone due vetrine di ceramiche e porcellane occidentali e orientali. Sono rappresentate molte manifatture italiane (Faenza, Lodi, Bassano del Grappa, Laveno) e straniere (Cina, Giappone, Meissen, Compagnia delle Indie).

Prima di entrare nell’Atelier rimango rapita dall’Esedra dei Marmi. Entro un esplicito richiamo al Pantheon romano Pogliaghi raduna gran parte della sua collezione antica, tra cui si ammirano esempi di arte egizia, etrusca, greca, romana e rinascimentale. Molti pezzi sono modificati, ricomposti e assemblati dallo stesso artista in pastiche tipici del gusto eclettico ottocentesco.
Uno stuolo di statue e frammenti antichi che mi porta a chiedermi se sto sognando o se questa è davvero la sala di una casa.

Osservo le collezioni dell’artista. Un patrimonio di oltre 1500 opere tra dipinti, sculture e arti applicate e circa 580 oggetti archeologici che Pogliaghi ha allestito con gusto personale e ottocentesco tendente all’horror vacui. Oggetti che donano alle pareti di questa casa quel profumo antico che si mescola armoniosamente con quel sapore dell’artista, del genio. Quel genio che credi di trovare ancora in casa, intento forse a lavorare allo splendido portale del Duomo.

Entriamo quindi nel grande studio dell’artista, utilizzato da Pogliaghi e dai suoi aiuti per lavorare alle imponenti commissioni che hanno caratterizzato la sua attività. Qui sono riuniti modellini e riproduzioni eseguite da Pogliaghi stesso delle sue opere più importanti. In particolare si segnalano gli Angeli porta-cero eseguiti per l’altare maggiore della Chiesa Primiziale di Pisa, un bozzetto per la Pietà della Cappella espiatoria di Monza, i Profeti per la Basilica del Santo a Padova, il gruppo della Concordia per l’Altare della Patria di Roma e alcune imposte bronzee per la porta centrale della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Domina la sala la maggiore commissione ricevuta da Pogliaghi che lo assorbirà completamente tra 1894 e 1908: la porta centrale del Duomo di Milano.

Quando vedo, incorniciato dalla splendida scalinata in marmo di Candoglia, il modello in gesso in scala 1:1 resto letteralmente senza parole. Una prorompente e scenografica teatralità che quasi mi commuove. Ho sempre spiegato il portale bronzeo del Duomo ma vederne il modello è tutta un’altra storia. Perché questa è come l’anima dell’opera finita.
Le formelle in gesso – dopo aver subito il processo di fusione a cera persa per ottenere l’opera finale in bronzo – sono state assemblate, rilavorate, incerate e in parte colorate dall’artista per ottenere una personale riproduzione dell’opera. Così come il Duomo milanese, la porta è dedicata alla Madonna e propone sul battente di sinistra i misteri dolorosi della storia di Maria e su quello di destra i misteri gaudiosi. I due battenti sono sormontati dall’incoronazione della Madonna assunta in cielo da Cristo, tra angeli e santi.
Durante il mio percorso storico-artistico mi hanno sempre affascinato le fasi di produzione di un’opera d’arte. Perché ti regalano quel sapore artigianale, quotidiano, l’immagine di quell’artista che sta creando la sua opera con le sue mani, le sue idee, il suo cuore.
Se chiudo gli occhi, in questo grande studio posso ancora ascoltare il fermento lavorativo e creativo, gli strumenti del mestiere che creano opere straordinarie, uniche.
Mi volto e cosa vedo?
La Galleria dorata. Legno, tappezzeria, Pantheon, atelier e ora una Galleria Dorata! Si tratta di una sorta di modellino in scala 1:4 di un’importante commissione che Pogliaghi ricevette da oltre i confini nazionali. Si tratta infatti di un progetto in gesso, stucco dorato e specchi del bagno per la reggia del terz’ultimo Scià di Persia da realizzarsi in oro zecchino in dimensioni quattro volte maggiori. Lo Scià per ringraziare Pogliaghi del progetto gli regalò le caleidoscopiche lastre di alabastro che dominano la finestra della stanza e, probabilmente grazie alla sua intercessione, Pogliaghi riuscì ad acquisire nella sua collezione i sue rari sarcofagi egizi datati tra 900 e 700 a.C. che spiccano nell’ambiente.

Lodovico Pogliaghi, morì nel 1950 nella sua casa al Sacro Monte, e fu tumulato nel cimitero del borgo di Santa Maria del Monte che si fregia della presenza di questa sua splendida casa museo.
Mentre cerco informazioni sul web leggo che la scelta di non predisporre didascalie per le opere e di accompagnare il pubblico con visite guidate incluse nel biglietto rispecchia la volontà di mantenere viva – per quanto possibile – la dimensione quotidiana e domestica della villa, concepita dallo stesso Pogliaghi come luogo abitativo e museale. Una scelta che, da buona guida turistica, non posso fare altro che condividere.
Quando termina la visita guidata la richiesta delle guide è quella di divulgare la conoscenza di questo luogo. Detto, fatto. Perché una promessa all’Arte e alla Bellezza si deve mantenere.
Mentre torno a casa, con il vento che batte sulla giacca della moto, penso a quanto, in fondo, sia stata voluta questa giornata. Penso a quanto è bella la nostra Italia e la mia vena di patriottismo diventa sempre più viva e pulsante. Sono orgogliosa del nostro bel Paese e sempre più affascinata non solo dalle bellezze e dalla Grande Storia che ha lasciato per la sua gente, ma anche dalle persone, dai geni, dagli artisti, dagli animi che l’hanno attraversata.
Un grande cuore che continua a battere. Unico ed insostituibile.
Per maggiori informazioni e saperne di più…
SacroMonteDiVarese – SacroMonte
CasaMuseoLodovicoPogliaghi
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Credits
Sacro Monte di Varese
Casa Museo Lodovico Pogliaghi
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