Cari Amici, la ripresa lavorativa di visite guidate a Milano, 🗣 porta sempre con sé una grande carica ed entusiasmo. Non solo. Ritornare nei luoghi più cari regala l’opportunità di ri-vedere con occhi nuovi 👀 dettagli già conosciuti e dotati di un eterno fascino. Così, mentre mi perdo letteralmente tra i cortili del Castello Sforzesco, fotografo per l’ennesima volta la scopetta di Ludovico il Moro. 🧹 . Si tratta di uno dei tanti e singolari stemmi sforzeschi che costellano non solo Milano, ma tutti quei luoghi che hanno visto il passaggio di uno degli Sforza più astuti della casata. . Conoscete la storia di questo stemma? Ve la racconto io. Avete mai sentito parlare della celeberrima Impresa della scopetta? 🧹 . In primis, l’impresa, è la rappresentazione simbolica di un proposito, di un desiderio, di una linea di condotta per mezzo di un motto o di una figura che vicendevolmente si interpretano. L’impresa della scopetta è legata proprio a Ludovico il Moro, così chiamato per la sua carnagione scura e per il suo bel caschetto nero corvino. . Durante il suo ducato egli non perdeva mai occasione di ricordare a tutti l’aspetto morale della sua politica. Così, in una delle sale del Castello Sforzesco di Milano 🏰 fece eseguire un curioso dipinto in cui vi era raffigurata una dama in abbigliamento regale, ✨ con una veste ricamata ad emblemi delle città italiane. Accanto stava uno scudiero moro in atto di ripulirla con la famosa scopetta. 🧹 A chi chiedeva lumi, Ludovico rispondeva: “La donna è l’Italia, io sono lo scudiero, la scopetta è per nettar l’Italia d’ogni bruttura”.
Testimonianza tangibile del significato simbolico della scopetta e di quanto vi ho appena raccontato, sono le seguenti parole: (Ludovico il Moro) “aveva fatto dipingere in Castello l’Italia in forma di reina 👸🏽 che aveva in dosso una veste d’oro ✨ ricamata a ritratti di città che rassomigliavano al vero e dinanzi le stava uno scudiero moro negro con una scopetta in mano. Perché dimandando l’ambasciator fiorentino al Duca al che serviva quel fante negro, rispose che scopettava quella veste e le città per nettarle d’ogni bruttura, volendo che s’intendesse il Moro essere arbitro dell’Italia e assettarla come gli pareva”. . A scrivere queste parole fu l’erudito comasco Paolo Giovio nel suo Dialogo delle imprese eroiche ed amorose, composto a Firenze negli anni Cinquanta del Cinquecento: un sagace trattatello, di genere squisitamente cinquecentesco, dedicato appunto alle “imprese”. . Non è finita qui. Oltre alla scopetta, lo stemma sforzesco è caratterizzato anche da un nastro sul quale compare uno dei motti preferiti di Ludovico Merito et tempore, ovvero “per merito e con tempo”. . Dove si trova la scopetta 🧹 che ho fotografato al Castello Sforzesco di Milano? Andate a cercarla nel cortile della Rocchetta! Un consiglio: guardate in alto! . Buona ricerca! 🕵🏻🕵🏻♂️ . Un caro saluto 😉 elysArte
Il murale in corso XXII Marzo a Milano. Foto: MilanoToday
Quando si avvicina il 𝟽 ᴅɪᴄᴇᴍʙʀᴇ non riesco a non pensare alla ricorrenza di 𝔖𝔞𝔫𝔱’𝔄𝔪𝔟𝔯𝔬𝔤𝔦𝔬.
In questi giorni ho letto la notizia di un nuovo grande murale a Milano, realizzato dall’artista Igor Scalisi Palminteri sulla facciata di un palazzo in corso XXII Marzo, raffigurante Sant’Ambrogio come sᴜᴘᴇʀᴇʀᴏᴇ ᴅᴇʟʟᴇ ᴀᴘɪ.🐝
Vi rimando alla lettura dell’articolo dedicato in calce al mio racconto, perché desidero subito condividere con voi una domanda spontanea: cosa c’entra Sant’Ambrogio con le api?
E’ il suo primo biografo, Paolino, a raccontarcelo. Segretario di Ambrogio, egli scrisse, infatti, a poco più di vent’anni dalla sua morte, la Vita di Ambrogio.
Ambrogio nacque attorno al 333/334 d.C. a Treviri, città (ora in Germania) sulle rive della Mosella. Una città importante perché sede della prefettura del pretorio delle Gallie, una delle più alte magistrature dell’Impero Romano.
Ambrogio era l’ultimo di tre fratelli, dopo Marcellina e Satiro.
Paolino riferisce di un miracolo che avrebbe contrassegnato la vita di Ambrogio fin dai suoi primi anni.
Egli stava riposando nella culla, quando all’improvviso sopravvenne uno sciame di api che gli coprirono il volto, entrando e uscendo in continuazione dalla bocca. Si trovavano lì vicino i suoi genitori e sua sorella Marcellina, insieme ad un’ancella che si precipitò per scacciare lo sciame, ma il padre lo impedì, timoroso certo per la sorte del figlio, ma anche incuriosito di vedere come sarebbe finito quell’evento. E, infatti, senza fare alcun male al fanciullo, lo sciame d’un tratto si levò in alto e scomparì. “Questo mio figlio diverrà qualcosa di grande!” esclamò il padre.
Quelle api lasciarono sulle labbra del piccolo un po’ del loro miele🍯: questo fatto fu interpretato come un segno profetico della dolce e nutriente eloquenza del futuro vescovo, apprezzato soprattutto per la sua predicazione, elegante e ricca di contenuti.
Il miracolo delle api, coro ligneo del Duomo di Milano, seconda metà del Cinquecento-inizi Seicento, Pellegrino Tibaldi e altri artisti. Fu Carlo Borromeo a scegliere la vita di Sant’Ambrogio come soggetto per la decorazione degli stalli del coro.
Sono, infatti, le dolci parole di Ambrogio a colpire il cuore del popolo milanese che decise di nominarlo futuro vescovo. Vediamo come.
In primis non dobbiamo dimenticare che Ambrogio non intraprese subito la carriera ecclesiastica. Anzi. Proveniente da una famiglia nobile e abbiente, a Roma, città dove si trasferì insieme ai familiari dopo la morte del padre, completò i suoi studi di grammatica, retorica e filosofia, acquisendo le basi per lanciarsi nella carriera di funzionario imperiale.
Dopo aver esercitato la professione di avvocato 🧑💼 ed essere stato consigliere di Sesto Pretorio a Sirmio (zona ora vicina all’odierna Belgrado), attorno al 370 venne per Ambrogio l’occasione di un prestigioso avanzamento in carriera: la nomina a governatore della provincia dell’Emilia-Liguria con sede a ᴍɪʟᴀɴᴏ.
Milano. Quella Milano, capitale dell’Impero d’Occidente, quella Milano tanto celebrata nella sua grandezza (ricordate la lapide di Ausonio nel cortile del Castello Sforzesco?).
ᴍɪʟᴀɴᴏ ᴇ ᴀᴍʙʀᴏɢɪᴏ: inizia così la storia di un legame indissolubile.
Siamo nel IV secolo d.C. e la chiesa milanese stava vivendo una grave esperienza di lacerazione. Nel 355 il vescovo di Milano Dionigi fu mandato in esilio dall’imperatore Costanzo II, che impose come suo successore un vescovo proveniente dalla Cappadocia di nome Aussenzio. La questione era insieme di carattere dottrinale e politico: mentre Dionigi, infatti, professava la fede cattolica, l’imperatore aveva sposato la causa dell’eresia ariana.
E Aussenzio era filoariano.
Il problema divenne acuto dopo la sua morte, perché ognuna delle due fazioni in cui era divisa la Chiesa milanese, quella ariana e quella cattolica, voleva che diventasse vescovo uno della propria parte.
Ne sorse un tumulto che rischiava di degenerare in un vero e proprio disordino pubblico.
Ambrogio, come magistrato, si sentì in dovere di accorrere in Duomo per mettere pace.
E fu in quell’occasione, che, secondo la tradizione, un bambino gridò all’improvviso “ᴀᴍʙʀᴏɢɪᴏ ᴠᴇsᴄᴏᴠᴏ!”
E il popolo intero, prima diviso, si trovò quasi miracolosamente d’accordo su quella designazione.
“Quale resistenza opposi per non essere ordinato vescovo!”.
Così scrisse quasi vent’anni dopo quei fatti Ambrogio stesso.
Non tutti conoscono, infatti, i suoi tentativi, quasi pittoreschi, di evitare l’importante nomina.
E’ sempre Paolino a raccontarci alcuni degli escamotage messi in atto da Ambrogio.
1️⃣ Essendo governatore e quindi competente ad amministrare la giustizia, Ambrogio si fece erigere una tribuna e iniziò ad emanare sentenze ingiuste, dando addirittura l’ordine di torturare alcuni imputati.
2️⃣ In seconda battuta, dal momento che il popolo non si convinceva ed anzi insisteva, fece entrare in casa sua donne di malaffare; ma per la seconda volta il popolo non ci cascò. Anzi, iniziò a gridare 🗣“Il tuo peccato ricada su di noi!”.
I milanesi, insomma, lo volevano a tutti i costi loro vescovo.
3️⃣ Tentò la fuga da Milano verso Pavia, ma una fitta nebbia 🌫 lo disorientò facendolo ritrovare, dopo ore e ore di cammino, a Porta Romana.
I milanesi, ritrovatoselo in città, per non rischiare di perderlo un’altra volta, se lo presero in custodia.
Per risolvere la questione, il popolo si appellò all’imperatore Valentiniano che aderì all’idea di elevare il suo funzionario politico alla carica di vescovo.
4️⃣ Ambrogio tentò una seconda fuga, questa volta meglio organizzata; ma la sentenza dell’imperatore e il conseguente editto che intimava, a chiunque sapesse qualcosa di Ambrogio, di denunciarlo e di consegnarlo, pena la confisca dei beni, obbligò l’amico Leonzio che lo nascose in casa sua a Pontelungo (PV) a ricondurlo a Milano.
E fu così che domenica 𝟹𝟶 ɴᴏᴠᴇᴍʙʀᴇ 𝟹𝟽𝟺, per sua esplicita richiesta, Ambrogio ricevette il battesimo. 💧
Il fatto di essere stato scelto, o meglio costretto, dai suoi concittadini, a passare dalla carriera politica a quella ecclesiastica per diventare loro vescovo, lo mise di fronte alla necessità di entrare pienamente nella Chiesa ricevendo il sacramento del battesimo.
Lo ricevette probabilmente nel battistero di Santo Stefano alle Fonti, rinvenuto alla fine del XIX secolo sotto la sacrestia settentrionale del Duomo e parte dell’antico complesso episcopale.
Il 𝟽 ᴅɪᴄᴇᴍʙʀᴇ 𝟹𝟽𝟺 Ambrogio, all’incirca quarantenne, venne finalmente ordinato vescovo, pastore di quella Chiesa che poi da lui avrebbe preso il suo nome, la ℭ𝔥𝔦𝔢𝔰𝔞 𝔄𝔪𝔟𝔯𝔬𝔰𝔦𝔞𝔫𝔞.
Dopo aver rivoluzionato in maniera consistente la fisionomia della città di Milano, dopo una vita di miracoli, di preghiera e dedizione al suo popolo, nelle prime ore di quel sabato santo, 𝟺 ᴀᴘʀɪʟᴇ 𝟹𝟿𝟽, Ambrogio morì.
Nella domenica di Pasqua il suo corpo venne traslato all’interno di quella basilica, che tutti da tempo chiamavano Ambrosiana, perché fatta da lui costruire come luogo della sua sepoltura.
Il suo corpo, ancora oggi, giace sotto l’altare, insieme a quello dei santi Gervaso e Protasio.
Chi fu il suo successore?
Fu Ambrogio stesso a designarlo quando, qualche giorno prima di morire, dal suo letto, dove giaceva malato pronunciò tre parole destinate ad entrare nella storia della Chiesa milanese per sempre: “senex sed bonus” ovvero “vecchio, ma buono”. Parole riferite ad una delle persone più vicine alla personalità di Ambrogio: il prete sɪᴍᴘʟɪᴄɪᴀɴᴏ. Fu proprio lui ad accogliere Ambrogio appena nominato vescovo, a prepararlo al battesimo e a guidarlo nei primi passi dell’episcopato, a dargli lezioni di teologia e circa il metodo di lettura e interpretazione della Bibbia. Fu proprio lui a diventare vescovo di Milano, quando Ambrogio morì.
Continuerei a raccontarvi di Ambrogio e di tutte quelle opere e quei luoghi che sono intimamente connessi alla sua figura, per ore e ore.
Vi prometto di continuare a farlo … dal vivo! 🗣🗣🗣
Un caro saluto 😊
elysArte
Murales di Corso di Porta Ticinese. “Milano Street History”, è il progetto commissionato da Don Augusto Casolo, che circonda il muro della Basilica di San Lorenzo. Il murale racconta due millenni di storia attraverso la rappresentazione di volti celebri della storia di Milano da Sant’Ambrogio ad Attila, da Carlo Magno a Leonardo da Vinci, dal Manzoni a Giuseppe Verdi, dagli Sforza a Napoleone. Foto: ClubMilano
Vedovella o bar del drago verde in Piazza della Scala
Cari Amici,
il bello di Milano è che, in qualsiasi luogo voi vi fermiate, la città custodisce segretamente una, due, tre, tante storie da raccontare.
Tra le tante storie di Piazza della Scala desidero raccontarvi quella più semplice.
Quella della fontanella, comunemente chiamata vedovella o bar del drago verde, che si trova di fronte a Palazzo Marino.
Avete mai fatto caso che ha una fisionomia diversa rispetto alle oltre 400 vedovelle che costellano la città offrendo ristoro sicuro a tutti?
E’ l’unica realizzata in ottone dorato e non in ghisa ed è incorniciata da un’elegante greca in mosaico.
E’ la più antica di Milano e venne disegnata dall’architetto Luca Beltrami negli anni Venti del Novecento.
Luca Beltrami fu architetto, conservatore, restauratore, storico dell’arte ed esperto di arte lombarda, professore all’Accademia di Brera e al Politecnico, incisore, fotografo, scrittore, giornalista e uomo politico.
Famoso nel campo del restauro, poiché si basava sulla veridicità della storia e dei suoi documenti, fu uno dei pochi a preoccuparsi del contesto del monumento, basandosi su una documentazione storica della vita dell’edificio.
Tra le tante testimonianze tangibili della figura di Beltrami in città vi ricordo: la facciata di Palazzo Marino, il restauro del Castello Sforzesco, la ricostruzione della Torre del Castello Sforzesco, detta “del Filarete”, la sinagoga centrale in Via Guastalla.
Presso la Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco sono inoltre conservati il fondo bibliografico e il carteggio personale (1880-1932), donati dallo stesso Beltrami al Comune di Milano: la Raccolta Beltrami è costituita da manoscritti, libri, disegni, stampe e fotografie, materiali da lui utilizzati come strumenti di lavoro.
Afflitto da un male incurabile, Luca Beltrami morì a 79 anni l’8 agosto 1933 a Roma. Da qui il feretro partì dalla Stazione Termini per Omegna (VCO) per essere sepolto nella cappella gentilizia di famiglia nel cimitero della frazione di Cireggio.
Nel 1985, dopo oltre cinquant’anni, il corpo di Beltrami venne traslato nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano, dove si trova ancora oggi.
E’ sempre emozionante pensare che anche sotto il verde ramarro di una semplice fontanella si nasconda la storia di una grande persona.
In un giardino alpino ogni filo d’erba ha la sua storia da raccontare.
Cari Amici,
è il secondo giardino alpino istituito in Italia, dopo quello di Chanousia sul colle del Piccolo San Bernardo. Si trova a 800 metri di altitudine, sulle pendici del Mottarone, nella graziosa frazione Alpino di Stresa.
Sto parlando del Giardino Botanico Alpinia.
Una sola panchina di legno grezzo, su un dosso a 800 metri d’altitudine, prospiciente il gran quadro del bacino centrale del Lago Maggiore, era quanto di turistico esisteva in posto; vi si giungeva per mezzo di uno stretto sentiero tra ginestre e felci. Quello era il “belvedere” e si sapeva che da quel posto, nel gran silenzio dell’isolamento dal resto del mondo, la vista poteva spaziare su laghi e monti fino a più di centocinquanta chilometri di lontananza.
Queste sono le parole di Iginio Ambrosini che insieme a Giuseppe Bossi lo istituì nel 1934.
Fondato in epoca fascista il giardino fu inaugurato con il nome di Duxia.
Il Giardino Botanico Alpinia rappresenta un luogo di notevole interesse naturalistico per la sua vasta e variegata raccolta di specie botaniche autoctone che crescono spontanee sui pendii del Mottarone, di specie provenienti dal piano alpino e subalpino, dal Caucaso, dalla Cina e dal Giappone.
Sono più di mille, infatti, le specie di piante che si espandono su un’area che dai 12.000 mq degli esordi si estende ora su 40.000 mq, regalando scorci che nella loro semplicità regalano una genuina sensazione di pace, ordine, tranquillità.
All’interno è inoltre presente una rinomata fonte d’acqua oligominerale dedicata al naturalista Marco de Marchi, fondatore dell’Istituto Idrobiologico di Pallanza.
Punto forte dell’area è l’eccezionale panorama visibile dal Belvedere, una vista unica che spazia dal Golfo Borromeo alla catena delle Alpi Svizzere.
Grazie a questa pregiata posizione Alpino divenne, fin dalla metà del XIX secolo, meta turistica per molti aristocratici europei e per artisti che qui trovarono l’ispirazione per le loro opere. Pittori della scuola lombarda e noti musicisti, affascinati dal luogo, vi costruirono splendide dimore; nacquero cosi Villa Pica-Alfieri, Villa Rebora Pimpinelli, Villa dell’Orto e Villa Anfossi. In quest’ultima è conservata un’epigrafe latina di Achille Ratti, futuro Papa Pio XI, dedicata all’Alpino: Qui tutto è musica, e il compito del maestro è quello di tradurre in note la voce superba della natura.
Henry Correvon, fondatore nel 1889 del Giardino alpino La Linnea in Svizzera, in una conferenza tenuta a Milano nel 1934 dichiarò: Ho visto dove Duxia nasce, ho visto molti bei luoghi d’Europa e d’America, dichiaro che il belvedere dell’Alpino è il più bello del mondo. Mi hanno detto che esagero, nego l’esagerazione.
Cosa state aspettando? Sedetevi qui e esagerate anche voi!
Lo sapevate che ..?
Oltre al Giardino Botanico Alpinia, l’agronomo Iginio Ambrosini fondò nel 1939 il Museo dell’Ombrello e del Parasole della vicina Gignese. Il Museo accoglie circa 1500 pezzi tra impugnature, bastoni, ombrelli e parasole e racconta l’evoluzione delle mode che hanno influenzato dall’Ottocento a oggi lo stile di questi accessori.
Comprende anche pezzi storici, ombrelli appartenuti a pittori, cardinali, nonché il parasole della Regina Margherita, la cui famiglia era solita villeggiare a Stresa. Nel settore del Museo dedicato alla vita degli Ombrellai è possibile ammirare i rudimentali attrezzi delle antiche botteghe, in un viaggio di memorie attraverso i volti, gli strumenti, i luoghi di lavoro che hanno caratterizzato la produzione di ombrelli. Un itinerario storico ricco di immagini, di testimonianze e curiosità di un lavoro antico che gli ombrellai nati nel Vergante hanno saputo far conoscere ed apprezzare in tutto il mondo.
Cari Amici,
lentamente possiamo iniziare ad uscire dalle nostre case e cercare luoghi in grado di raccontarci qualcosa di semplice: la serenità.
Potremmo chiamare questi luoghi affettuosamente oasi.
Piemontese d’adozione, non posso non parlarvi di un luogo che porta proprio questo nome.
Un luogo che, proprio in questi giorni, ho desiderato mostrare a mia figlia di appena un anno.
Sto parlando dell’Oasi Zegna, in provincia di Biella.
Le sue radici sono strettamente legate alla personalità di Ermenegildo Zegna.
I concittadini di Trivero erano indecisi se annoverare Ermenegildo Zegna tra i folli o i sognatori; concordi, comunque, nel pensare che non appartenesse alla categoria delle persone con i piedi per terra. In effetti, però, i piedi di Ermenegildo Zegna erano più radicati a terra di quanto i buoni abitanti di Trivero fossero disposti a credere. (Aldo Zegna).
Ultimogenito di dieci figli, Ermenegildo nacque nel 1892.
Fu lui a prendere le redini del lanificio aperto dal padre Angelo Zegna, di professione orologiaio, fondando nel 1910, a soli 18 anni, il Lanificio Zegna, a Trivero, nelle Alpi biellesi.
La grande capacità commerciale di Ermenegildo non si limitò tuttavia al settore tessile.
L’imprenditore capì che la bellezza dell’ambiente naturale e il benessere delle persone che lo abitano erano indispensabili per un’azienda che aspirasse a durare nel tempo.
Per questo motivo negli anni ’30 fece costruire, oltre alle case per i dipendenti dell’azienda, una sala convegni, una biblioteca, una palestra, un cinema/teatro, una piscina pubblica, un centro medico e una scuola materna per i suoi concittadini.
Per questo motivo e per amore della natura e delle sue origini, egli decise di far vivere la montagna sopra Trivero, creando, a partire dal 1938, una fra le primissime strade costruite per fini turistici: la Panoramica Zegna.
Il tracciato di questa strada fu il primo precoce tassello di un grande, rivoluzionario progetto di valorizzazione del territorio e salvaguardia ambientale che portò nel 1993 alla creazione dell’Oasi Zegna. Un progetto che fin dalle sue origini non stravolse l’ambiente circostante ma ne rafforzò le difese idrogeologiche con la piantumazione di oltre 500.000 tra conifere, rododendri e ortensie.
Da non perdere all’interno dell’Oasi è la Conca dei rododendri che tra i mesi di maggio e giugno si trasforma in un morbido tappeto fiorito macchiato da colori di straordinaria bellezza.
Così bello da guadagnarsi il titolo di fioritura più bella d’Italia. Questo scenografico giardino fu realizzato negli anni ’50 in prossimità del Lanificio Ermenegildo Zegna. Dopo l’intervento dell’illustre architetto paesaggista Pietro Porcinai alla fine degli anni ’60 è stato recentemente ampliato da Paolo Pejrone.
Le piante sono disposte con cura nella conca, secondo la dimensione e le diverse tonalità, seguendo un disegno armonico che si inserisce perfettamente nel paesaggio circostante.
Voi non dovete fare altro che camminare dentro questo tappeto fiorito, lasciarvi cullare dai suoi colori e godervi un po’ di … serenità.
Fatelo per voi stessi.
Curiosità lungo la Strada Panoramica Zegna
Valle Cervo
Affacciata sul torrente omonimo, sul suo territorio sono visibili diverse formazioni rocciose come i graniti e la sienite della Balma, utilizzata come materiale da costruzione e impiegata anche per opere illustri, come il basamento della Statua della Libertà a New York.
Domina la valle il Santuario di San Giovanni, l’unico in Italia dedicato a S. Giovanni Battista.
Bielmonte
E’ il punto più alto raggiunto dalla Strada Panoramica. Dopo aver ricavato un ampio piazzale panoramico, Ermenegildo Zegna realizzò il primo impianto sciistico: la seggiovia del Monte Marca, costruita nel 1956 e messa in funzione nel gennaio dell’anno seguente. A monoposto, è ancora funzionante e sale all’omonimo rifugio a 1620 metri di quota
Bocchetto Luvera
Il nome è rimasto a significare la presenza delle “luere”, trappole per lupi. Meno di 100 anni fa erano presenti in Alta Valsessera ma non hanno retto alla caccia spietata dell’uomo.
Cari Amici,
nella ricorrenza del mio compleanno, mi piace riguardare le foto di quando ero piccola.
Ce n’è una in particolare a cui sono molto affezionata.
E’ la foto scattata insieme a mio nonno Luigi nel bel mezzo di quello che per me era il paese delle meraviglie: l’orto!
La vita ha voluto che io nascessi il 10 aprile, il giorno successivo al compleanno di mio nonno Luigi ed è per questo che conservo un legame molto speciale con lui.
Una persona cara che ci ha lasciato parecchio tempo fa e che se fosse ancora viva avrebbe 89 anni!
Ricordando l’orto di mio nonno ho avuto l’ispirazione per l’ottavo appuntamento di ARTE IN CASA.
L’Orto milanese per antonomasia è l’Orto Botanico di Brera, uno dei luoghi più affascinanti e magici della città che ancora oggi si estende accanto al complesso dell’Accademia. La magia di questo orto è quella saperti catapultare in una dimensione in cui il tempo sembra annullarsi, un luogo dove assaporare il silenzio si trasforma in un’esperienza sensoriale davvero unica.
Sotto le fronde di alberi secolari, annusando i profumi delle piante aromatiche, ammirando i colori dei fiori è possibile entrare in contatto con una natura autentica, speciale.
L’Orto Botanico di Brera fu istituito nel 1774 quando Maria Teresa d’Austria stabilì che l’ex giardino dei Gesuiti diventasse un’istituzione con finalità didattico-scientifiche per gli studenti di medicina e farmacia del ginnasio di Brera. In quel periodo venne privilegiata la coltivazione di piante officinali anche per il parziale rifornimento della Spezieria di Brera, destinata al servizio pubblico della città.
In periodo francese si cercò di trasformare l’Orto in luogo di ritrovo e svago per la cittadinanza introducendo anche piante esotiche ornamentali, ma con la caduta di Napoleone prima e l’Unità d’Italia poi, l’Orto Botanico cadde sempre più in abbandono; nel 2001 è stato recuperato, riportato all’antico splendore e riaperto al pubblico.
Attualmente l’Orto Botanico di Brera è un Museo universitario con la finalità di salvaguardare un bene storico come testimonianza del modello culturale in vigore nella seconda metà del Settecento.
Fa parte, assieme ad altri 6 orti botanici, della Rete degli Orti della Lombardia, associazione che ha lo scopo di progettare e sviluppare iniziative culturali congiunte.
Tra le specie più interessanti spiccano i patriarchi dell’Orto, due Ginkgo biloba di due secoli e mezzo di vita, simbolo del giardino e siti nello storico arboreto.
Ora che vi ho parlato dell’Orto desidero condividere il legame che esiste tra l’Orto Botanico di Brera e alcune opere d’arte conservate alla Pinacoteca di Brera, focalizzando l’attenzione sul mondo vegetale rappresentato nei dipinti, lo stesso mondo che popola il meraviglioso Orto Botanico.
Prima di iniziare vi ricordo che la Pinacoteca di Brera, nata nel 1776 come eterogenea raccolta di opere destinata alla formazione degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera voluta dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, fu ufficialmente istituita del 1809 come museo pubblico da Napoleone Bonaparte. Oggi, Museo di statura internazionale, raccoglie in 38 sale capolavori di artisti italiani dal XIV al XIX secolo.
Vittore Carpaccio e la borragine Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel Sinedrio, 1514
Borragine
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VITTORE CARPACCIO, Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel Sinedrio, 1514, olio su tela, 147 x 172 cm, Pinacoteca di Brera, Milano
Vittore Carpaccio nacque a Venezia intorno al 1465 e lì operò fino alla morte avvenuta nel 1526. I suoi dipinti più famosi sono i cicli di storie realizzati per le principali confraternite della città (Scuole). In queste opere, la tradizione narrativa veneziana si coniuga con l’attenzione al dettaglio propria dell’arte fiamminga, dando vita ad ambientazioni fantastiche.
La Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel Sinedrio faceva parte della serie di cinque grandi tele con le storie del santo che ornavano la sede veneziana della Confraternita dei Laneri.
Carpaccio ambienta la vicenda, che si era svolta a Gerusalemme, in uno scenario immaginario con edifici fantastici, in cui molti personaggi sono abbigliati all’orientale. Anche le piante, fra le quali molte sono medicinali, vengono descritte minuziosamente e tra di esse, in basso a destra, è riconoscibile la borragine. L’insolita scelta di raffigurare proprio questa pianta dipende forse dal fatto che il suo nome si collega al mondo dei produttori e dei commercianti della lana, che costituivano la maggioranza dei confratelli della Scuola di Santo Stefano. Borragine, infatti, deriva dal latino borra, un tessuto di lana ruvida, per la peluria che ricopre le foglie.
Bernardino Luini e la Rosa Madonna col Bambino (Madonna del Roseto), 1520-1521 circa
Rosa
BERNARDINO LUINI, Madonna col Bambino (Madonna del Roseto), 1520-1521 circa, olio su tavola, 70 x 63 cm, Pinacoteca di Brera, Milano
Bernardino Scapi detto Luini perché nacque nei pressi di Luino nel 1480 circa, fu prevalentemente attivo a Milano, dove morì nel 1532. Le sue prime opere rivelano l’influenza di Zenale, Bergognone, Bramantino e Leonardo. Il suo stile maturo mostra impianti compositivi molto semplici ed espressione smisurata dei sentimenti, anche nelle scene più drammatiche.
La Madonna del Roseto è un’opera probabilmente destinata alla Certosa di Pavia. Nella rappresentazione della Vergine col Bambino, Luini coniuga il gusto per la descrizione del dato naturale tipico della tradizione lombarda con gli studi botanici iniziati da Leonardo fin dal periodo fiorentino. Ogni specie vegetale è ben riconoscibile e resa con estrema aderenza alla realtà. Di particolare rilievo il pergolato di rose che funge da sfondo alla scena, crando un hortus conclusus, elemento tradizionalmente associato alla figura di Maria, alludendo alla sua purezza. L’iconografia del giardino chiuso è connessa con l’Immacolata Concezione della Vergine e con la sua totale estraneità dal peccato.
Vorrei raccontarvi altre opere in cui è tangibile la presenza del mondo vegetale dell’Orto Botanico di Brera ma … vi aspetto ad una mia futura visita guidata!
Un caro saluto elysArte
Credits
ArteOrto (da un progetto di Aboca in collaborazione con la Pinacoteca e l’Orto Botanico di Brera).
Wikipedia
Cari Amici,
per il settimo appuntamento di ARTE IN CASA desidero condividere con voi la figura di uno dei più grandi artisti d’ogni tempo, la cui opera segnò un tracciato imprescindibile per tutti i pittori successivi e fu di vitale importanza per lo sviluppo del linguaggio artistico dei secoli a venire.
Sto parlando dell’urbinate Raffaello Sanzio, del quale quest’anno si celebra il 500esimo anniversario dalla sua morte. Raffaello, infatti, morì il 6 aprile 1520 a soli 37 anni, nel giorno di Venerdì Santo. Il suo corpo fu sepolto nel Pantheon, come egli stesso aveva richiesto.
Riassumere la vita e le opere di Raffaello in un solo articolo è impossibile, così ho deciso di dedicarvi qualche “pillola” della sua vita e delle sue opere.
La Casa di Raffaello
La Casa di Raffaello ad Urbino è una dimora di valore storico: qui è nato l’artista nel 1483, qui è avvenuta la sua formazione accanto al padre, il pittore, poeta e scrittore Giovanni Santi (1440 ca.-1494), un colto umanista alla corte di Federico da Montefeltro. L’edificio del XV secolo, acquistato da Santi nel 1460, dopo la prematura morte di Raffaello fu custodito da privati senza subire particolari rifacimenti. Nel 1869 il Conte Pompeo Gherardi trasformò la casa in sede della nuova Accademia Raffaello, un’istituzione che negli anni ha visto illustri soci onorari, da Manzoni a Garibaldi fino a Rossini. Tutt’oggi luogo di ricerca, studio e raccolta documenti sul grande artista, spicca in una piccola stanza, ritenuta quella natale di Raffaello, un affresco di dubbia paternità: la Madonna col Bambino è di Giovanni Santi o del giovane figlio?
Le donne di Raffaello
Raffaello seppe cogliere l’essenza femminile, più di ogni altro pittore a lui contemporaneo. Nei ritratti rinascimentali, la donna è quasi sempre oggetto del desiderio dell’uomo; per Raffaello invece, essa manifesta una propria intelligenza e consapevolezza che risuona nell’eros dell’immagine. In quest’ottica, le figure femminili dell’artista sono le prime donne moderne del mondo occidentale. Spesso, le donne che Raffaello ha ritratto sono figure importanti che provengono dalle corti, luoghi dove era loro permesso l’accesso alla cultura, alla lingua italiana, latina e spesso anche greca. Nei ritratti di Raffaello quindi, si impone una femminilità nuova, quasi ribelle, che sprigiona il valore e la virtù profonda che proviene dall’essere donna.
Cliccate sull’immagine per ammirarla in ogni suo dettaglio.
RAFFAELLO SANZIO, La Fornarina, 1518-1519, olio su tela, 85 x 60 cm, Galleria nazionale d’arte antica, Roma È firmato sul bracciale della donna: RAPHAEL VRBINAS.
Lo Sposalizio della Vergine
Lo Sposalizio della Vergine è la pala d’altare realizzata da Raffaello nel 1504 per la chiesa di San Francesco a Città di Castello, su commissione dalla famiglia Albizzini. Il soggetto rappresentato, le nozze di Maria dopo che Giuseppe era stato scelto come suo sposo in maniera miracolosa, proviene da un vangelo apocrifo, diffuso attraverso La Legenda Aurea, una raccolta di biografie agiografiche composte in latino da Jacopo da Varazze nel 1298. Lo Sposalizio, rappresenta il momento di massimo avvicinamento della pittura di Raffaello ai modi del Perugino. La ripresa dell’iconografia del celebre maestro, evidenzia la particolare qualità espressiva maturata da Raffaello, che crea un capolavoro di prospettiva rinascimentale, in profondo rapporto con la raffinata cultura urbinate in cui il giovane artista si è formato. Se Perugino aveva semplicemente accostato le parti della composizione entro una struttura prospetticamente corretta, Raffaello costruisce una composizione in cui tutti gli elementi sono legati da relazioni matematiche di proporzioni e sono disposti secondo un preciso e serrato ordine gerarchico.
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RAFFAELLO SANZIO, Sposalizio della Vergine, 1504, olio su tavola, 174×121 cm, Pinacoteca di Brera, Milano
Il Raffaello dell’Ambrosiana. In principio il Cartone. Il restauro del disegno della Scuola di Atene
E’ il più grande cartone rinascimentale a noi pervenuto, interamente realizzato da Raffaello. Oltre duecento fogli di carta sui quali l’artista disegnò La Scuola di Atene, la prima delle composizioni ideate per gli affreschi commissionati da Giulio II per la Stanza della Segnatura, negli appartamenti del Palazzo Apostolico in Vaticano. Una superficie di circa otto metri di lunghezza per tre metri di altezza dove si snodano le immagini della comunità dei sapienti antichi e moderni. Un racconto in bianco e nero dal dinamismo accentuato e dagli intensi effetti chiaroscurali, composto da più di cinquanta figure, tra le quali spiccano in alto, nel gruppo dei filosofi, Platone, con il dito puntato verso l’alto, riconoscibile poiché regge il Timeo, e Aristotele, identificabile dal libro dell’Etica. Il “bel finito cartone”, secondo le definizioni dell’epoca, conteneva tutte le informazioni necessarie alla realizzazione dell’opera: non solo i contorni delle figure e dello scenario in cui andavano a disporsi ma i movimenti, le espressioni dei volti e la provenienza della luce, fornendo un’immagine compiuta di quello che sarebbe stato il risultato finale. Il cartone non fu distrutto durante la trasposizione del disegno sulla parete da affrescare e sopravvisse, nonostante la fragilità del supporto, anche alle razzie e a perigliosi viaggi per acqua che lo intaccarono senza offuscare l’articolata e fitta sequenza narrativa messa in scena da Raffaello. Il prezioso manufatto era, infatti, tra i tesori artistici requisiti da Napoleone che lo portò via dalla Pinacoteca Ambrosiana dove si trovava sin dal 1610. Proprio al Louvre, tra il 1797 e il 1798, il cartone subì un complesso restauro prima di rientrare a Milano nel 1816. Nel 2014 la Biblioteca Ambrosiana, ha avviato sul cartone una lunga e laboriosa attività di indagine e opera di restauro conservativo.
RAFFAELLO SANZIO, Scuola di Atene, 1509, Biacca, Carboncino, Cartone preparatorio, 285 × 804 cm, Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Madonna della Seggiola
Perfetto esempio di dipinto di forma circolare, il cosiddetto “tondo”, quest’opera di Raffaello appartiene a uno dei principali temi di ricerca dell’artista – la Madonna e il Bambino – e rimane uno degli esempi più radiosi del Rinascimento italiano. Eseguito tra il 1513 e il 1514, il dipinto fu completato quando il maestro era a Roma per dipingere gli appartamenti papali in Vaticano.
L’opera si trova nelle collezioni medicee fin dalla prima metà del Cinquecento, ed era sicuramente nata per una collocazione privata, a giudicare dal formato della tavola. La presenza della sedia camerale, da cui l’opera trae il titolo, la complessità compositiva e altri dettagli hanno fatto ipotizzare che l’opera fosse nata su commissione di papa Leone X, e da lui inviata ai suoi parenti a Firenze.
L’aspetto che più rapisce di quest’opera è il tono intimo e domestico che la caratterizza, accentuato dal gesto affettuoso di Maria che stringe tra le braccia Gesù e dall’intenso e penetrante sguardo con cui osserva lo spettatore. Le gambe della Vergine si sollevano, coperte da un drappo azzurro, scivolando quasi in avanti, in modo da creare un ritmo circolare che sembra voler suggerire il dondolio del cullare. Dietro la bellezza formale si cela una composizione condizionata dalla forma circolare della tavola: l’andamento circolare delle figure della Vergine e del Bambino è bilanciato dalla verticalità della spalliera del sedile. L’unità compositiva e l’affettuosa intimità tra la madre e il figlio sono ottenute anche attraverso la disposizione dei colori: freddi all’esterno, caldi all’interno.
Non c’è dubbio: l’opera è “uno dei maggiori capolavori dell’arte rinascimentale”.
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RAFFAELLO SANZIO, Madonna della seggiola, 1513-1514, olio su tavola, diametro 71 cm, Galleria Palatina, Firenze
Infine, come ben saprete la grande mostra “Raffaello 1520-1483” alle Scuderie del Quirinale a Roma rappresenta uno degli eventi più attesi del 2020 non solo in Italia ma in tutto il mondo. Inaugurata il 5 marzo, è stata chiusa al pubblico tre giorni dopo per contenere il propagarsi dell’epidemia.
Così, desidero chiudere questo articolo con una passeggiata virtuale in questa grande mostra.
Cari Amici,
per il sesto appuntamento di ARTE IN CASA desidero condividere con voi alcune perle della Milano Liberty.
Sì, proprio delle perle. Perle incastonate nelle forme di sinuosi motivi floreali forgiati nella materia del ferro battuto, dei fregi, mosaici, affreschi e maioliche.
Sto parlando del fenomeno artistico imperante a Milano nei primi anni del Novecento, testimonianza tangibile di una città divenuta capitale della finanza italiana e che vede nella nuova borghesia milanese la sua principale committente.
L’area liberty milanese per antonomasia è quella di Porta Venezia.
Partiamo da un hotel.
L’hotel Kursaal Diana, oggi Sheraton Diana Majestic, in Viale Piave, 42.
La cosa straordinaria da sapere è che prima dell’edificazione di questo hotel l’area era occupata da quella che fu la prima piscina pubblica d’Italia, i Bagni di Diana, aperta nel 1842. L’atmosfera di questo modernissimo impianto la si può vedere nel breve filmato della casa Lumiere del 1896, uno dei primi documenti cinematografici su Milano.
La piscina lasciò spazio all’hotel Kursaal Diana di Achille Manfredini nel 1908, un complesso con albergo, teatro e ristorante. Al posto della piscina dei Bagni Diana un giardino di 700 metri quadrati, ancora oggi uno dei fiori all’occhiello dell’albergo, con piante fontane e una pista di pattinaggio.
Kursaal Diana. Salone del teatro, 1909 (da L’Edilizia Moderna)
Non distante dall’hotel Diana, in Via Malpighi 3, troviamo Casa Galimberti, progettata da Giovanni Battista Bossi per i fratelli Galimberti, imprenditori edili, tra i primi sostenitori del nuovo stile a Milano. La sua superficie è un meraviglioso e luccicante tappeto di piastrelle di ceramica dipinte su cui fioriscono figure femminili e maschili in un intreccio di piante rampicanti lussureggianti.
L’esterno riccamente decorato, l’interno piuttosto semplice, perché Casa Galimberti fu concepita come “casa a reddito”, ovvero una residenza di appartamenti da mettere in affitto.
Casa Galimberti, foto di Andrea Cherchi
Resto sempre affascinata dalla raffinatezza e dall’eleganza delle due bellissime statue femminili, due cariatidi, ai lati dell’ingresso di Casa Campaniniin Via Vincenzo Bellini, 11. Un vero e proprio invito ad entrare in quello che è considerato il capolavoro di Alfredo Campanini, architetto di origini emiliane ma milanese d’adozione, che progettò per sé questa casa tra il 1904 e il 1905. L’architetto non si occupò solo della costruzione dell’edificio ma anche del disegno di tutti i particolari decorativi, dalle figure scultoree del portale alle vetrate e ai ferri battuti con motivi vegetali, realizzati dalla ditta Mazzucotelli, specializzata nel ferro battuto e responsabile della realizzazione delle decorazioni di molte tra le più significative opere Liberty italiane e straniere. Grandissima è la maestria con cui viene impiegato il cemento, uno dei nuovi materiali sperimentati dal modernismo, modellato per la decorazione.
Casa Campanini
Palazzo Castiglioni, situato ai civici 47 e 49 di Corso Venezia, è considerato il manifesto artistico del Liberty milanese. Fu costruito tra il 1901 e il 1904 su progetto dell’architetto Giuseppe Sommaruga per l’imprenditore Ermenegildo Castiglioni spinto dalla volontà di distinguersi rispetto alle altre costruzioni della zona, nobili dimore settecentesche dalle forme neoclassiche simboli della vecchia aristocrazia cittadina.
Il palazzo emerge così per contrasto rispetto alle costruzioni vicine per le dimensioni monumentali, per la facciata dal pronunciato bugnato grezzo e per l’esuberanza della decorazione plastica e in ferro battuto.
Due grandi statue femminili, opera dello scultore Ernesto Bazzaro e allegorie della Pace e dell’Industria, ornavano originariamente il portale d’ingresso ma, giudicate “scandalose” a causa della nudità esposta, in quanto posavano dando le spalle e il loro lato B ai passanti, furono rimosse e ricollocate sul fianco della villa Romeo Faccanoni (oggi Clinica Columbus, in via Buonarroti 48). Per questo motivo il palazzo fu battezzato la Cà di Ciapp.
Le statue della Pace e dell’Industria in Via Buonarroti, 48
Vorrei raccontarvi ancora tante perle del Liberty milanese ma … vi aspetto ad una visita guidata per condividere con voi lo stupore per la bellezza di un angolo della città a cui sono più affezionata.
Vacanze.
Cos’è il tempo della vacanza?
Un tempo in cui perdersi, ritrovarsi, vivere, semplicemente. Respirando.
Mi dedico a me stessa e all’Italia. Entrambe le conosco poco.
Dopo una settimana all’Isola d’Elba, dove il tempo si trasforma in un’eterna oasi di silenzio interiore, io e Stefano ci dirigiamo verso il Centro Italia alla scoperta delle nostre bellezze.
Ci lasciamo accogliere dalla Toscana, che ci abbraccia con le sue distese infinite di giallo e di verde punteggiate dal genuino mattone dei casolari introdotti da eleganti filari di cipressi, e con un cielo denso di nuvole grigie che borbotta lanciando lampi di luce.
San Galgano. Siamo ad una trentina di chilometri da Siena, nel comune di Chiusdino.
Intorno a sé questo luogo ha seminato silenzio e vento, un vero e proprio “pilastro della terra”, sopra il quale si distende un’infinita pennellata di cielo.
L’immaginazione corre tra le navate di questa abbazia cistercense del XIII secolo, salendo fino all’eremo, detto “Rotonda di Montesiepi”, dove la storia si intreccia con il mito.
Del santo, titolare del luogo che si festeggia il 3 dicembre, sappiamo che il suo vero nome era Galgano Guidotti, nato nel 1148 a Chiusdino da una famiglia di piccola nobiltà locale, e morto il 3 dicembre 1181. Visse la sua adolescenza da cavaliere libero e incline ai divertimenti più sfrenati, finché la sua vita cambiò radicalmente, diventando un vero Santo Cavaliere di Dio.
Un giorno, mentre viaggiava, ebbe improvvisamente due visioni dell’Arcangelo Michele. Nella prima l’Arcangelo gli si manifestò innanzi, nella seconda lo invitò a seguirlo. Galgano, accettato l’invito e attraversati un ponte e un prato fiorito, raggiunse Montesiepi, dove vide un edificio rotondo e i dodici apostoli. Fu da loro accolto e, aprendo un libro sacro, gli apparve il Creatore che lo convertì definitivamente. Riprese poi la sua normale vita, finché si verificò un altro importante episodio, un secondo episodio, definitivo per il suo destino.
Durante una passeggiata, il suo cavallo si rifiutò di continuare il cammino e di sua iniziativa lo ricondusse di nuovo a Montesiepi, esattamente nello stesso luogo dove precedentemente aveva incontrato i dodici apostoli. Galgano non ebbe più dubbi, quello era un luogo sacro e meritava un’identità, una croce. Provò a cercare del legno per costruirla ma non lo trovò, allora decise di prendere la propria spada e conficcarla nella roccia. In questo modo appariva una croce praticamente perfetta a tutti coloro che l’avessero guardata.
Prese poi il suo mantello e lo indossò come saio. Sentì anche una voce santa che lo invitò a fermarsi per tutta la vita in quel luogo; Galgano così fece e diede inizio alla sua autentica vita da eremita, vivendo da quel giorno nei boschi e nutrendosi solo di erbe selvatiche.
Durante una sua assenza, per un pellegrinaggio a Roma, la spada nella roccia subì un tentativo di furto e venne forzata da tre ladri che, non riuscendo nell’intento di sfilarla, la ruppero e l’abbandonarono (la spada nella roccia è infatti realmente spezzata).
Il castigo divino non perdonò l’atroce misfatto e raggiungendoli, uno venne fulminato all’istante, un altro annegato, mentre il terzo venne aggredito da un lupo che gli tranciò entrambe le mani (nell’eremo, in una bacheca è possibile vedere le ossa delle mani del ladro), ma venne risparmiato all’ultimo momento, perché, pentito, invocò il perdono di Galgano.
Al ritorno il santo trovò la spada spezzata. Ne fu molto dispiaciuto e si ritenne responsabile dell’accaduto per essersi allontanato. Intervenne la voce divina che gli disse di unire i pezzi e così facendo la spada si ricompose miracolosamente.
Da quel momento Galgano restò in quel luogo fino alla fine dei suoi giorni, morendo in preghiera sulla spada nella roccia. Quattro anni dopo la sua morte venne santificato da papa Lucio III e il culto di San Galgano si diffuse ovunque tra i cavalieri, e San Michele Arcangelo diventò il protettore della cavalleria.
La storia di questo uomo rende questo luogo ancora più intriso di magia, di una forte energia terrena e spirituale che trema ancora sotto la grande distesa di terra battuta che circonda tutto il sito.
Negli ultimi anni della sua vita Galgano entrò in contatto con i Cistercensi, chiamati a fondare la prima comunità di monaci che risulta già attiva nel 1201.
L’abbazia fu costruita a partire dal 1218 e consacrata nel 1288. La comunità di San Galgano accolse importanti personalità finché, la carestia del 1329, la peste del 1348 ed il saccheggio di vari eserciti, la colpirono duramente.
Successivamente, il territorio dell’abbazia fu distrutto dal passaggio di bande di mercenari e alla fine del XV secolo i monaci si trasferirono nel palazzo di San Galgano a Siena. Nel 1786 un fulmine colpì il campanile che crollò sul tetto dell’abbazia e la chiesa venne poi sconsacrata nel 1789.
La chiesa rispetta perfettamente i canoni della abbazie cistercensi; tali canoni erano stabiliti dalla regola di San Bernardo e prevedevano norme precise per quanto riguarda la localizzazione, lo sviluppo planimetrico e lo schema distributivo degli edifici.
Le abbazie dovevano sorgere lungo le più importanti vie di comunicazione (nel nostro caso la Maremmana) per render più agevoli le comunicazioni con la casa madre; inoltre erano in genere poste vicino a fiumi (la Merse) per poterne sfruttare la forza idraulica; e infine in luoghi boscosi o paludosi per poterli bonificare e poi sfruttarne il terreno per le coltivazioni.
Dal punto di vista architettonico gli edifici dovevano essere caratterizzati da una notevole sobrietà formale.
Mi trasformo in una briciola di pulviscolo atmosferico che, trasportata dal vento, inizia a rimbalzare in mezzo a questa imponente sobrietà, tra le possenti mura dell’abbazia.
La luce del mezzogiorno taglia le architetture e crea delle dimensioni grafiche davvero suggestive.
Questo luogo sembra trattenerci in qualche modo, desidera che il visitatore resti a condividere la sua anima ma nello stesso tempo è consapevole che presto dovrà andarsene.
Il cielo trabocca di nuvole e in lontananza i fulmini lo squarciano come le forbici fanno con la carta.
E’ ora di partire.
San Galgano ha seminato vento e silenzio dentro i nostri corpi fatti di carne e le nostre anime fatte di aria.
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