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giugno 2020

Il museo dei cavatappi a Barolo

Cari Amici,
lo sapevate che la nostra bella Italia conserva un meraviglioso Museo dei cavatappi?
Primo ed unico nel suo genere, viene inaugurato nel 2006 in un’antica cantina accanto al Castello Comunale di Barolo per raccontare la nascita e l’evoluzione di questo semplice utensile che silenzioso continua la sua storia dentro i cassetti delle nostre case.

La collezione nasce per iniziativa di Paolo Annoni, farmacista torinese trasferitosi nelle Langhe vent’anni orsono, che raccoglie circa 1200 esemplari, di cui un nucleo scelto di 500 sono esposti in museo; provenienti da tutto il mondo, sono stati costruiti in un lungo arco di tempo, dalla metà del 1600 ad oggi.

Sorprende scoprire che il cavatappi fu inventato nel 1795 dall’inglese Samuel Henshall, utilizzando strumentazioni preesistenti e sviluppate in origine per la manutenzione delle armi da fuoco o per stappare piccoli flaconi di medicinali o cosmetici.

Tra gli esemplari esposti in museo, oltre a quelli più semplici a “T” in legno, ferro, alluminio, ottone, si possono ammirare quelli realizzati con materiali più preziosi, come corno, ebano, avorio, argento, tartaruga. Poi si segue l’evoluzione dei meccanismi più complessi, con leve, pignoni e cremagliere. Una sezione è dedicata ai cavatappi figurativi, spesso poco pratici, in forme animali o umane: interessante un cavatappi statunitense del periodo del proibizionismo che rappresenta la caricatura del Senatore Volstead, autore del provvedimento legislativo contro il consumo di bevande alcoliche.

Oltre al Museo dei cavatappi, il borgo di Barolo sorprende perché qui tutto parla di vino: a ogni angolo campeggiano le insegne dipinte delle cantine che attraggono il visitatore grazie alla presenza di uno dei vini più celebri al mondo, tanto da essere considerato per la tradizione re dei vini e vino da re. Domina l’abitato il Castello Falletti, sede dell’Enoteca regionale del Barolo e dal 2010 sede del WiMu, il Museo del vino, allestito da François Confino (autore anche del Museo del Cinema ospitato dalla Mole Antonelliana di Torino).

Un caro saluto 🤗
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Per saperne di più
http://www.museodeicavatappi.it
http://www.wimubarolo.it

Credits
Ricerca sull’enogastronomia piemontese svolta dagli allievi del Ciofs Novara
http://www.museodeicavatappi.it

Immagini
http://www.vinumalba.com
http://www.museodeicavatappi.it

Ottofile

Cari Amici,
otto sono le file di chicchi che sorridono nella parte alta della pannocchia.
Questo è il motivo per cui un prodotto autoctono del Monferrato si chiama mais ottofile.

Coltivato in Piemonte fin verso la metà del secolo scorso, il mais ottofile era conosciuto anche come la melia du re, poiché fu il Re, Vittorio Emanuele II, grandissimo estimatore di questo prodotto, ad incentivarne la coltivazione nella sua tenuta di Pollenzo.
Oggi soppiantato dall’importazione di mais ibridi provenienti dall’estero, la farina di mais ottofile è diventata difficilmente reperibile, prodotta solo da un esiguo numero di agricoltori.
Per salvaguardarne il sapore e preservare le sue molteplici proprietà nutritive, questo mais viene ancora oggi lavorato secondo i metodi di un tempo: raccolto a mano, viene essiccato al sole e macinato “a pietra naturale”.
Il risultato: una polenta eccezionale!

Un caro saluto 🤗
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Ricerca sull’enogastronomia piemontese svolta dagli allievi del Ciofs Novara

ARTE IN CASA ~ Sa védum a l’Ortiga

Murale “Agli Orti dell’Ortica”. Foto di Andrea Cherchi

“Dòpo el pont che va giò a l’Ortiga, dove ona volta gh’era on quaj praa, coi sò pegor gh’era la Rita a faj pascolà. La Rita de l’Ortiga di Nanni Svampa

Ascolta qui 👉🏻 La Rita de l’Ortiga di Nanni Svampa

Cari Amici,
vi ho già accompagnato nell’orto di mio nonno nell’articolo ORTO&ARTE.
Prima di accompagnarvi per le strade di Milano, per il tredicesimo appuntamento di ARTE IN CASA desidero parlarvi di quella che era la terra degli orti milanese, il Quartier de l’Ortiga, nella periferia est della città, al confine con Lambrate.
E’ il 1696 e per la prima volta la parola Ortica compare per indicare il nome di una celebre osteria con cascina che si trova ancora oggi nella via omonima.
Quel nome finì per identificare tutto il quartiere. Per sempre.
Non solo. Ortica deriva non dalla pungente pianta che tutti conosciamo bensì da orto, ortaglia, luogo adatto alle coltivazioni in quanto irrigabile dal fiume Lambro.
Nelle cronache, infatti, l’Ortica viene sempre dipinto come un luogo di terreni fertili, ancora presenti agli inizi del Novecento.

Nella seconda metà dell’Ottocento i campi coltivati cedettero il posto alla strada ferrata ferdinandea, inaugurata nel 1846, alla stazione intermediaria tra Milano e Monza (dismessa nel 1931) e alle industrie, quella ceramica della Richard-Ginori e quella metalmeccanica della Fratelli Innocenti.
Quest’ultima, aperta nel 1933, fu attiva soprattutto durante la Seconda Guerra Mondiale con il suo brevetto del Tubo Innocenti, ovvero gli snodi per impalcature, utili all’epoca della guerra per gli interventi di ingegneria “di pronto soccorso” e ancora oggi comunemente utilizzati.
Doveroso ricordare che dalla Fratelli Innocenti nacque la grande concorrente della Vespa, la Lambretta, così chiamata da Daniele Oppi poiché prodotta nelle vicinanze del fiume Lambro.

Oltre alla storia dell’Ortiga, uno degli aspetti che letteralmente adoro di questo quartiere è quello di poter camminare tra le strade di un vero e proprio museo permanente a cielo aperto, un luogo dove poter dire, semplicemente, che “qui la storia la conoscono i muri”.
Sto parlando del progetto ORME, (Ortica Memoria): a partire dal 2015, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, il quartiere viene ricoperto con murales che raccontano la sua storia e quella della città nel corso del Novecento.
Il progetto è capeggiato da Wally e Alita, due street artists italiani che si nascondono sotto lo pseudonimo di Ortiocanoodles e che hanno fatto capolino nelle strade delle principali città europee nel 2004, prima con operazioni di stickering e incollando manifesti, poi con creazioni basate su un codice pop incentrato sull’uso della tecnica dello stencil.

Tra i murales dell’Ortiga campeggiano i volti di Alda Merini, Liliana Segre, quelli di coloro che hanno cantato l’Ortica, e alcuni l’hanno anche vissuta, come Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Dario Fo, Ivan Della Mea, Giorgio Strehler, Giorgio Gaber e Nanni Svampa.
Un meraviglioso graffito dedicato agli Orti dell’Ortica, per ricordare con fiori e colori il passato agricolo del piccolo borgo.
E tanti altri ancora …
Un murales non inaugurato a causa del lockdown.
Uno appena iniziato e quasi terminato dedicato al noster Domm.

Guarda il video 👉🏻 “Un assaggio di Ortica” 

Vi ho già raccontato troppo … sa védum a l’Ortiga per una visita guidata!

Presto vi aggiornerò sulle prossime visite guidate!
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Foto di Andrea Cherchi

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Or.Me Ortica Memoria

Cucina piemontese ~ I “plin”

Cari Amici,
avete mai sentito parlare del plin?
In dialetto piemontese significa “pizzicotto” e non può che riferirsi al magistrale gesto di pizzicare la pasta per racchiudere il ripieno di carni e verdure in minuscole tasche di sfoglia all’uovo.
Ecco confezionati a mano gli agnolotti del plin, originari delle Langhe e della zona del Monferrato, chiamati anche pessià, i pizzicati.
Per esaltarne il puro sapore e conservarne la morbidezza i veri puristi langaroli usano servirli, come nei tempi passati, adagiati su canovacci di canapa, in dialetto curdunà, senza alcun condimento.

L’origine del termine agnolotto sembra invece derivare dal torinese anulòt, il ferro utilizzato una volta per tagliarli a forma di anello; l’originaria forma rotonda fu poi mutata in un grosso e gobbuto agnolotto quadrato, chiamato affettuosamente il gheub, il gobbo.
Il nome del cuoco autore degli agnolotti è avvolto da un velo leggendario. Pare che nel 1814 un libro intitolato La nuovissima cucina economica fu il primo a riportare la ricetta degli agnellotti alla piemontese.
Autore del libro un cuoco che viaggiò in Europa per raffinare la sua arte.
Il suo nome? Vincenzo Agnoletti.

Un caro saluto 🤗
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Ricerca sull’enogastronomia piemontese svolta dagli allievi del Ciofs Novara a.a 2019/2020

Alpinia, il secondo giardino alpino italiano

In un giardino alpino ogni filo d’erba ha la sua storia da raccontare.

Cari Amici,
è il secondo giardino alpino istituito in Italia, dopo quello di Chanousia sul colle del Piccolo San Bernardo. Si trova a 800 metri di altitudine, sulle pendici del Mottarone, nella graziosa frazione Alpino di Stresa.
Sto parlando del Giardino Botanico Alpinia.

Una sola panchina di legno grezzo, su un dosso a 800 metri d’altitudine, prospiciente il gran quadro del bacino centrale del Lago Maggiore, era quanto di turistico esisteva in posto; vi si giungeva per mezzo di uno stretto sentiero tra ginestre e felci. Quello era il “belvedere” e si sapeva che da quel posto, nel gran silenzio dell’isolamento dal resto del mondo, la vista poteva spaziare su laghi e monti fino a più di centocinquanta chilometri di lontananza.

Queste sono le parole di Iginio Ambrosini che insieme a Giuseppe Bossi lo istituì nel 1934.
Fondato in epoca fascista il giardino fu inaugurato con il nome di Duxia.


Il Giardino Botanico Alpinia rappresenta un luogo di notevole interesse naturalistico per la sua vasta e variegata raccolta di specie botaniche autoctone che crescono spontanee sui pendii del Mottarone, di specie provenienti dal piano alpino e subalpino, dal Caucaso, dalla Cina e dal Giappone.
Sono più di mille, infatti, le specie di piante che si espandono su un’area che dai 12.000 mq degli esordi si estende ora su 40.000 mq, regalando scorci che nella loro semplicità regalano una genuina sensazione di pace, ordine, tranquillità.
All’interno è inoltre presente una rinomata fonte d’acqua oligominerale dedicata al naturalista Marco de Marchi, fondatore dell’Istituto Idrobiologico di Pallanza.

Punto forte dell’area è l’eccezionale panorama visibile dal Belvedere, una vista unica che spazia dal Golfo Borromeo alla catena delle Alpi Svizzere.
Grazie a questa pregiata posizione Alpino divenne, fin dalla metà del XIX secolo, meta turistica per molti aristocratici europei e per artisti che qui trovarono l’ispirazione per le loro opere. Pittori della scuola lombarda e noti musicisti, affascinati dal luogo, vi costruirono splendide dimore; nacquero cosi Villa Pica-Alfieri, Villa Rebora Pimpinelli, Villa dell’Orto e Villa Anfossi. In quest’ultima è conservata un’epigrafe latina di Achille Ratti, futuro Papa Pio XI, dedicata all’Alpino: Qui tutto è musica, e il compito del maestro è quello di tradurre in note la voce superba della natura.

Henry Correvon, fondatore nel 1889 del Giardino alpino La Linnea in Svizzera, in una conferenza tenuta a Milano nel 1934 dichiarò: Ho visto dove Duxia nasce, ho visto molti bei luoghi d’Europa e d’America, dichiaro che il belvedere dell’Alpino è il più bello del mondo. Mi hanno detto che esagero, nego l’esagerazione.

Cosa state aspettando? Sedetevi qui e esagerate anche voi!

Lo sapevate che ..?
Oltre al Giardino Botanico Alpinia, l’agronomo Iginio Ambrosini fondò nel 1939 il Museo dell’Ombrello e del Parasole della vicina Gignese. Il Museo accoglie circa 1500 pezzi tra impugnature, bastoni, ombrelli e parasole e racconta l’evoluzione delle mode che hanno influenzato dall’Ottocento a oggi lo stile di questi accessori.
Comprende anche pezzi storici, ombrelli appartenuti a pittori, cardinali, nonché il parasole della Regina Margherita, la cui famiglia era solita villeggiare a Stresa. Nel settore del Museo dedicato alla vita degli Ombrellai è possibile ammirare i rudimentali attrezzi delle antiche botteghe, in un viaggio di memorie attraverso i volti, gli strumenti, i luoghi di lavoro che hanno caratterizzato la produzione di ombrelli. Un itinerario storico ricco di immagini, di testimonianze e curiosità di un lavoro antico che gli ombrellai nati nel Vergante hanno saputo far conoscere ed apprezzare in tutto il mondo.

 

Per saperne di più
http://www.giardinobotanicoalpinia.altervista.org
http://www.museodellombrello.org

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